E' VERO: c'è una distorsione elevata fra percezione e realtà. Fra l'insicurezza e i motivi usati, normalmente, per spiegarla. Ormai è quasi uno slogan che echeggia in ogni discorso. Quasi un riflesso pavloviano. Proviamo crescente paura della criminalità anche se la criminalità diminuisce oppure, comunque, non aumenta. Una considerazione banale. Osservare che non c'è motivo di avere paura. Però se abbiamo paura qualche motivo c'è. E comunque: abbiamo paura.
Questa è l'unica realtà. Per l'uomo politico, l'amministratore; il "responsabile" della nostra sicurezza, la soluzione migliore è, dunque, di assecondare le nostre paure. Fornirci immagini, a modo loro, rassicuranti per curare la nostra insicurezza. Dirci che non è colpa "nostra", ma degli "altri". I "microcriminali" ("tanto piccoli che quando ci muoviamo richiamo di calpestarli", ironizzava Marco Paolini, in una pièce di qualche anno fa: il "Bestiario Veneto"). Gli immigrati. Gli zingari. Gli altri, che ci minacciano. Perché violano, anzitutto, la nostra nostalgia. Il nostro senso di comunità spezzato. Il nostro piccolo mondo schiacciato dal mondo più grande che grava, incombe su di noi. Valutazioni realistiche e perfino scontate. Dette così, tra persone colte e ragionevoli, come siamo noi, possono risultare convincenti. Però vi sfido a fare lo stesso discorso alla gente che incontrate ai supermercati. All'uscita oppure all'ingresso. Mendicanti, accattoni, zingari, stranieri. Magari i tossici. Provate a dire alla "gente comune": sbagliate a temere queste figure. I marginali, gli ultimi del nostro piccolo mondo. Voi non vi rendete conto, ma in effetti, è il mondo "in grande" che vi spaventa. La vostra insicurezza è "ontologica", come direbbe Bauman. O forse Giddens. Nasce da lontano. Dalla crisi dei riferimenti cognitivi, dei fondamenti di valore, dell'ordine globale. E' questo che mina il senso della vostra vita. Poi, verificate le reazioni dei vostri interlocutori. Nel migliore dei casi, vi guarderanno con compassione. Come dei matti. O dei poveracci. Al pari di quelli che stazionano all'ingresso ( all'uscita) del supermercato. Dipende dai punti di vista. Il problema è questo: le spiegazioni più "radicali", quelle che isolano e individuano i problemi "alla radice" e permetterebbero, quindi, di "sradicarli", sono anche le più difficile da attuare. Perché richiedono tempi lunghi. Perché fanno riferimento a ragioni lontane da noi. Nel tempo, nello spazio. Ma, soprattutto, queste spiegazioni sonno comunque complesse. Difficili da chiarire e da capire. E quand'anche vi foste riusciti, quando, cioè, il vostro interlocutore avesse compreso che sì, la fonte della sua insicurezza non è (solo) lo zingaro, l'immigrato, l'accattone, lo sfigato, il tossico. Ma è la globalizzazione. Oppure la perdita della comunità. La scomparsa del territorio.
L'urbanizzazione sconvolgente che sconvolge le menti e le solidarietà. Quand'anche foste riusciti a chiarirlo bene, al vostro interlocutore - e, se fate politica oppure un amministratore: al vostro elettore. Poi, che cosa gli dite? Quale soluzione gli proponete? Di tornare indietro nel tempo? Al passato tanto bello in confronto a questo presente desolante? Oppure di distruggere palazzi, condomini e piazze per ricostruire l'ambiente umano di un tempo? Anche voi, dei "ragazzi della via Gluck", dediti a constatare, in modo poetico e dolente, che "là dove c'era l'erba ora c'è una città" (e campi nomadi, baracche, ecc.)?
Questo mi pare il problema maggiore per quanti avversano, giustamente, una concezione dell'insicurezza che tutto riduce alle "minacce nei confronti dell'incolumità personale". E diffidano di politiche securitarie che, invece di curare l'insicurezza, la moltiplicano. Politiche e provvedimenti miopi, incapaci di vedere (e pre-vedere) oltre la punta del naso. Ma se non hai soluzioni diverse, concrete, che, comunque, promettano (a torto o a ragione, non importa) risultati reali e realistici, rischi di passare per un "nane" (si direbbe dalle parti mie). Tradotto: un idealista un po' sciocco. Un poco tonto. A cui pochi si affiderebbero per risolvere problemi veri e drammatici, come la sicurezza.
Per questo occorre prendere le percezioni sul serio. Senza contrapporle alla realtà. Perché sono più reali della realtà reale. Prendere le percezioni sul serio. Ma senza crederci seriamente. Senza indossare, anche no, gli stessi occhiali deformanti. Come fanno molti uomini di governo centrale e locale che - ormai senza distinzione politica - inseguono le spiegazioni facili e semplici. Non solo operano per ristabilire la pulizia e la polizia dell'ambiente, contro zingari, accattoni, tossici e immigrati - naturalmente irregolari. Per le ragioni che ho scritto: è comprensibile. Ma neppure credibile che il problema stia lì. Che la causa siano gli "altri". Ma se non è credibile, meglio non crederci e non farlo credere alla gente.
Le percezioni: sono reali. Vanno prese sul serio. Trattate con rispetto. Tanto più le persone che esprimono. I "portatori sani" di giudizi indimostrati. Di pre-giudizi. Vanno prese sul serio. Però fingere di crederci. Anzi: crederci davvero. Questo no. Rispettare chi crede a una realtà irreale. Rispettare l'irrealtà come una forma di realtà. Tutto questo va bene. Ma considerare reale la realtà irreale. Anzi: l'unica realtà possibile. Dare ragione a chi la considera "vera". Ribadirne le convinzioni in modo convinto. No. E' troppo. Il divario tra percezioni e realtà, va ridotto, se possibile. Ma non solo e non necessariamente dalla parte della percezioni. Meglio lavorare per verificarle. Se necessario: smentirle e contraddirle. Senza rassegnarsi al "senso comune". Alle verità date per scontate, quando scontate non sono. Anche se e quando le "nostre" verità provate sono poco visibili, frustranti da accettare. Se contraddicono le verità percepite e i miracoli promessi. Se evocano soluzioni lontane e sgradevoli, perché coinvolgono "noi" e non solo gli "altri".
Se le nostre ragioni appaiono poco ragionevoli alla gente, meglio essere prudenti e umili. Senza rinunciare alle nostre ragioni, per il timore di passare da "nane".
Meglio nane che mona.
di Ilvo Diamanti
L'Aquila, 06 Aprile 2009
Le parti del nostro animo che la guerra ci ha strappato, ritorneranno al focolare.
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1 commento:
Analisi lucidissima... a volte diamanti ci azzecca. E' acutissimo il passaggio in cui si identifica nella frantumazione delle comunità il senso di insicurezza... e, aggiungo io, esso deriva anche dalla disgregazione del tessuto sociale, dal sentirsi soli di fornte al mondo, dall'individualismo sfrenato e a volte coatto... la frantumazione dello specchio, come dice a volte scalfari (ne cito un altro che ogni tanto una l'azzecca, se non fosse troppo fazioso). Ed è sempre più lampante il parallelo tra studenti fuori sede e immigrati ( se non fosse che i primi fanno una vita decisamente migliore dei secondi... in molti casi almeno...). L'integrazione rimane la chiave di volta.
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