È bene all'interno di Sinistra Democratica discutere su ciò che è accaduto e sulle cose che dovremo decidere. Ed è bene che ciò si faccia in punta di verità, affrontando intanto una domanda dolorosa, ma necessaria: abbiamo fatto bene ad andarcene dai DS? A cercare una strada nostra e a rifiutare l’approdo ecumenico nel Partito Democratico? Io sono convinto di sì. Il progetto del PD (e lo dico senza che ciò suoni da conforto per i nostri errori) ha rivelato le contraddizioni, le semplificazioni e le reticenze che avevamo previsto con largo anticipo. Se fossimo rimasti dentro, magari con il pretesto di dar vita alla sinistra del PD, oggi saremmo ridotti a una delle molte correnti incattivite di quel partito, accanto a veltroniani, dalemiani, amici di Letta, ex popolari, fedeli di Prodi e reduci di Rutelli. Roba da nozze con i fichi secchi.
Bene facciamo a non nutrire rimpianti. E bene faremo a non emulare il Pd nei sui vizi. Per cui, compagni e amici, facciamo sforzo di sincerità. Siamo rimasti – nelle forme organizzative, nei rapporti personali, nell’elaborazione della nostra attività – la mozione di minoranza di un partito (che nel frattempo aveva cessato di esistere). Di più. Siamo stati percepiti come una somma di mozioni: ci battevamo, con onesta generosità, per una sinistra unita e plurale ma intanto facevamo fatica a elaborare il lutto dai DS, dalle sue formule congressuali, dalle sue pratiche autoreferenziali. Abbiamo continuato a coltivare con religiosa sacralità i concetti di “area”, “sensibilità”, “componente”: categorie che forse un tempo hanno avuto una loro ragione d’essere, ma che oggi fanno parte di un malinconico rituale politico.
Sia chiaro: non si tratta di rifiutare una dialettica forte, vera e perfino aspra sulle cose da fare, sui gesti da compiere, sui riferimenti culturali e politici da assumere: si tratta di non incartare questa dialettica in un gioco delle parti. È ciò che ci mandano a dire gli elettori smarriti, quelli migrati altrove o rimasti a casa: dateci un segno che una nuova stagione della politica non sarà soltanto la somma di vecchie liturgie e di vecchi gruppi dirigenti. Ci chiedono un segno concreto che sappia mettere in discussione linguaggi, categorie, pratiche. Quel segno, diceva bene Carlo Leoni qualche giorno fa, passa anche attraverso la capacità di rivedere e di rilanciare le forme della partecipazione alla vita di Sinistra Democratica.
Ed è questo un punto discriminante. Di fronte al comprensibile passo indietro di Fabio Mussi dai ritmi e dalle responsabilità della sua funzione di coordinatore, vogliamo ridurre questa partecipazione a una frettolosa contabilità di assemblee locali per eleggere il nuovo coordinatore del movimento? Magari per tornare a contarci e ricontarci? Tutto qui?
Credo che sarebbe ingeneroso nei confronti di Mussi, come se davvero il colpo d’ala di Sinistra Democratica sia legato alla scelta d’un nuovo “leader”, dimenticando che Fabio - responsabile come tutti noi per le scelte, i ritardi e gli errori di questa fase – più di noi ha saputo mantenere in questi mesi la linea di una assoluta, intransigente coerenza con il progetto fondativo del nostro movimento. Ma sarebbe ingeneroso anche nei confronti della nostra gente che chiede protagonismo e partecipazione sulla politica nel suo complesso. Sulle cose da fare. Sui terreni concreti su cui misurarsi. Sul modo di rendere Sinistra Democratica un luogo inclusivo, aperto, contaminato e finalmente arricchito anche da chi non proviene dall’esperienza dei DS.
Partecipare vuol dire allargare, aprire, condividere. Anche per questo non mi riconosco più in un dibattito su quale debba essere la nostra tradizione politica di riferimento: se quella comunista, quella socialista, l’ambientalista… È un vecchio gioco, una collezione di nomi e di memorie che alla fine non produce nuova politica ma solo gestione dell’esistente. Qualcuno crede che verremo giudicati per un’astratta evocazione delle categorie del socialismo o del comunismo, o piuttosto per le scelte, i gesti, le azioni? A Vicenza s’è vinto non per aver messo al centro le proprie tradizionali appartenenze ma perché un candidato sindaco, e la coalizione che lo appoggiava, ha detto ciò che il governo Prodi non aveva saputo dire, ovvero che sulla base militare di Dal Molin non decideranno gli americani ma i vicentini, con un referendum che restituirà a ciascuno di loro piena sovranità sulla loro vita. È stata una battaglia ascrivibile al socialismo europeo? Alla falce e martello? Gli elettori non se lo sono chiesti. Si sono chiesti semplicemente se questa sinistra li avrebbe saputi tutelare e rappresentare di fronte all’arroganza di quella base.
Insomma, cari compagni, abbiamo o no l’umiltà e il coraggio di comprendere cosa ci sia dietro quel “tre” politico che ci è stato assegnato alle ultime elezioni? Gli italiani ci mandano a dire che questo è un paese diseguale, sgraziato, confuso, ingenuo, un paese di caste e non di classi, un paese in cui stanno male, malissimo, il laureato disoccupato, il ceto medio con stipendi in caduta libera, l’operaio che rischia di crepare in fabbrica, il ricercatore universitario a 800 euro al mese, il precario invecchiato in attesa del posto fisso, il commerciante meridionale condannato a pagare il pizzo...
Gli elettori di sinistra che ci hanno voltato le spalle non vogliono sapere se faremo parte della famiglia del socialismo europeo o dell’internazionale comunista, e nemmeno se falce e martello saranno ancora un minuscolo logo in fondo al nostro simbolo come le prescrizioni di un medico. Vogliono sapere chi siamo, cosa vogliamo fare per questo paese, come ci faremo carico della sua concreta, drammatica richiesta di cambiamento. Vogliono sapere in che modo crediamo di ricostruire una forma della politica che parta dal basso e dagli altri, non da noi stessi. Gli elettori di sinistra ci chiedono di aprire le nostre finestre e di guardare fuori, per capire cosa accade oltre la linea del nostro consueto orizzonte. Che è cosa più complicata e meno rituale del semplice “ritorno sul territorio”. Mayakowski, poeta e comunista, alla fine si ammazzò perchè stufo di un comunismo fatto di regole, liturgie e primi della classe. Ma prima ci mandò a dire, in un solo verso, tutta la sua rabbia, tutta la sua disperazione, tutta la sua verità: “Esci partito dalle tue stanze, torna amico dei ragazzi di strada”.
Claudia Fava
L'Aquila, 06 Aprile 2009
Le parti del nostro animo che la guerra ci ha strappato, ritorneranno al focolare.
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
1 commento:
Mica male questo Fava... la politica non è fatta di individualità, ma se Rifondazione elegesse Vendola segretario... beh, sarebbe il miglior modo di ripartire... per quello che Vendola e Fava rappresentano.
Posta un commento